Pubblicità



 

 

 

 

Ti lascia un segno nell'anima

"New York! New York!". Questo è il ritornello di una famosa canzone di Liza Minelli ed è quel motivo che mi ha girato in testa nei mesi precedenti al mio arrivo in questa città. Un anno è passato da quando ho partecipato al primo incontro per organizzare un viaggio allo scopo di partecipare alla mitica maratona, a quella che tutti, ma proprio tutti ti chiedono se hai mai fatto. Un anno lungo, pieno di sogni che accarezzano il momento in cui avrei messo piede nella Grande Mela. Poi sono partita e si è tutto svolto così velocemente che non sembra ancora vero.

La partenza da Pisa, le otto ore di aereo per attraversare l'oceano ed atterrare all'aeroporto dove file di grossi aerei pronti a decollare aspettano il proprio turno: già avevo un piccolo assaggio della grandezza di una città che io non mi sarei aspettata.

Al primo impatto ho pensato: "Oddio, sono in un film". Tante volte abbiamo visto quelle strade, quei grattacieli, quei portieri in divisa degli alberghi dentro le immagini di celluloide, ma dal vero sono le dimensioni delle cose che ti stupiscono. Le strade grandi come le nostre autostrade sono gremite di automobili lunghissime, le vere limousine americane, dai vetri neri e la carrozzeria bianca, le migliaia di taxi gialli che sono ovunque, le macchine della polizia, quelle bianche e azzurre, tutto grande ed in grande quantità.

I grattacieli poi, non credevo a chi mi diceva che erano bellissimi, pensavo "Ma cosa vuoi che abbiano di bello i grattacieli? Saranno palazzoni alti in cemento e via", e invece no, sono di marmo bianco o rosa, a specchio color fumo o colorato a luci rosse, azzurre o verdi. Non riesci ad abbassare la testa ed in cima lontano lontano vedi uno scampolo di cielo.

La sera in cui sono salita sull'Empire State Building, la vista di New York dall'alto con tutte le sue luci mi ha folgorata, non riuscivo a venire via. I mille colori creati dalla fantasia dell'uomo erano su quei palazzi, il bianco, il giallo, il rosso ed i ghirigori del neon, l'elicottero della polizia che girava incessante con il suo occhio teso ad illuminare i particolari di qualche scena e di sottofondo solo il rumore delle sirene. New York è una città silenziosa, le auto non sono rumorose, non sgassano, non ci sono motorini scoppiettanti.

Il secondo giorno c'era in programma un allenamento. Che emozione correre all'alba in Central Park che in questa stagione ha tutti i colori del bosco e vedere dall'altro lato del lago il sole sorgere dietro i grattacieli di Manhattan in una pallida alba novembrina.

Il sabato mattina una corsa dal palazzo delle Nazioni Unite a Central Park, tutti con le bandiere rappresentanti il proprio paese. Il giorno della fatidica maratona è arrivato anche troppo presto, inutile dire che la notte non ho dormito, benché ormai veterana di questo tipo di sfida, ma sapere di correre a New York mi ha emozionato. La mattina, alla partenza, dopo aver fatto l'ennesima ed interminabile fila per accedere all'interno dei recinti destinati ai partecipanti, ho curiosato in giro ed ho visto una tenda con un prete che officiava la Messa, un'altra che ospitava i massaggiatori, un'altra con il mangiare e altre per consentire ai maratoneti di stare al caldo in quelle due o tre ore di attesa prima del via. Gruppi di persone avvolti in vecchie coperte o imbacuccati nei modi più strani stavano sedute in terra, altri fra cui la sottoscritta, girellavano con fare nervoso.

Poi finalmente ci consentono di accedere al ponte di Verrazzano da dove partiremo. Con grande sorpresa, il mio numero di pettorale, basato sul personale in maratona, mi permette di partire in quarta fila tra le donne, ad un passo dalle campionesse. Intorno a me donne di varie età e razze, magre, grassocce, bianche o nere. Uno speaker vestito di giallo presenta vari personaggi che fanno il loro discorso, poi in attesa che passino gli ultimi due minuti, intona l'inno americano e le americane lo cantano mettendosi la mano sul cuore.

In alto elicotteri girano turbinosi. Un colpo di cannone e via, lungo il ponte di Verrazzano. Tira un micidiale vento freddo che non ci lascerà più. Scorgo in lontananza la Statua della Libertà illuminata da un raggio di sole tra le nubi.

Le miglia cominciano a scorrere, mi guardo intorno e non mi sembra ancora vero di esserci. Davanti vedo una delle "lepri" dell'organizzazione con il tempo finale di tre ore e mezzo scritto sulla sua maglietta, mi ci incollo dietro e starò con lei fino al diciottesimo miglio circa.

Ogni quartiere attraversato è un mondo diverso: ora vedo neri dappertutto, ora messicani, ora gli ebrei fondamentalisti con quei lunghi boccoli ed i cappelli scuri. Questo è l'unico quartiere dove non ci sono spettatori a vedere la maratona, ed i passanti sono indifferenti e forse anche scocciati dal caos che c'è. Lungo il percorso il pubblico urla continuamente e ti danno di tutto: arance, leccalecca, pezzi di Scottex per soffiarsi il naso.

La mia "lepre" mantiene un passo regolarissimo, peccato che io non parli l'inglese e lei non sappia una parola d'italiano. La stupisco con un gesto spontaneo, fatto tante altre volte in gara: ad un ristoro le passo un bicchier d'acqua. Mi ringrazierà per un'ora.

Nella Fifth Avenue la folla è così pressante che lo spazio è poco. Qualcuno mi chiama per nome, è del mio gruppo.

Sto correndo tra i grattacieli, sempre più gente ai lati della strada, ci stiamo avvicinando al Central Park dove c'è l'arrivo. Ad un certo punto mi raggiungono due italiani con una grande bandiera ed avendo letto sulla mia maglietta che sono una connazionale mi fanno mettere davanti a loro ed alla bandiera tesa per arrivare insieme. E così arriviamo, fra urla di gioia nostre e del pubblico. Appena passato il traguardo una doppia lunga fila di persone con un secchio davanti sta aspettando i maratoneti per toglier loro il chip che ha registrato i passaggi durante la gara, poi mi danno una rosa rossa, la medaglia, un abbraccio, la coperta di alluminio ed un sacchetto con qualcosa da mangiare, il tutto in rapida sequenza che già mi trovo con la mia sacca a cambiarmi. Tre ore, trenta minuti e ventotto secondi il mio tempo finale, molto molto meglio di ciò che speravo. A distanza di giorni, mentre sto scrivendo queste righe, ripensando a quelle ventisei miglia mi vengono ancora brividi di emozione. È decisamente una grandissima manifestazione, di quelle che ti lasciano un segno nell'anima.


Since 1984 - © Aerostato, Seattle - All Rights Reserved.