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Go Nino go!

La maratona di New York non me la dimenticherò mai! E tutte quelle che farò di qui in avanti, non saranno per me, mai come quella di New York. Avevo sempre sentito parlare bene della maratona americana, ma esserci è tutto un'altra cosa, credetemi.

Già al mattino abbiamo avuto una avvisaglia di ciò che stava per concretizzarsi. Una serie di pullman ha portato tutti i maratoneti attraverso Manhattan, New Jersey, Staten Island fino a Fort Wadsworth. Qui si è vista la vera efficienza dell'organizzazione americana. Da un lato, in leggera ascesa, su strade parallele, tutti i furgoni in fila, numerati e con la lettera iniziale del nostro cognome, pronti a ricevere la sacca con gli indumenti asciutti che poi dovevamo ritirare all'arrivo.

Ho visto molti tendoni dove i maratoneti potevano rilassarsi, altri dove distribuivano generi alimentari in grande quantità: ciambelle americane, snack di diverso tipo, frutta di diverso tipo, bottiglie di acqua minerale eccetera, altri attrezzati per i massaggi, uno per infermeria con medici e infermieri, con vaselina, cerotti, colliri e altro ancora, a disposizione di chiunque. Tendoni con dentro tubi di aria calda (qui ho trovato l'amico di sempre, Renato Piscioneri, praticamente abbracciato ad uno di questi tubi per mantenersi caldo). Per due ore siamo stati lì.

Dopo aver lasciato anche la nostra pipì, nelle tantissime toilette portatili (oltre cinquecentocinquanta) e l'orinatoio più lungo del mondo, ci siamo avviati verso l'area di raduno; dei gabbioni che altro non sono che dei pezzi di strada di cento metri circa, tutti contrassegnati con mille numeri, fino a più di quarantamila ed evidenziati anche dai colori verde, rosso e blu. Questi gabbioni sono posti in prossimità della partenza, vicino al ponte da Verrazzano e in altre strade che confluiscono verso il ponte stesso. Finalmente ci dicono di serrare le fila e subito ci troviamo attaccati gli uni agli altri, non è più possibile muoversi; si vedono volare, sopra le nostre teste, gli indumenti che vengono abbandonati: tantissimi e che fino a quel momento ci hanno protetti dal freddo.

All'improvviso, ma non tanto perché tutti lo stavano aspettando, il colpo di cannone: una vera liberazione, si comincia di passo lento a salire sul ponte, si corre sui panni di quelli che ci hanno preceduto. È salita, le gomitate si sprecano, nessuno chiede scusa, siamo tutti concentrati nell'avventura appena iniziata.

Quando si comincia a scendere verso Brooklyn, si vede uno sventolio di tricolori, mi si apre il cuore, mi emoziono, mi prende un groppo alla gola. Man mano che mi avvicino, dal volto della gente, vedo che sono messicani, le tantissime bandiere sono del Messico e le grida sono: "Olè Mechico"! Non fa niente, mi è comunque servito per andare avanti e non pensare alla fatica, ai chilometri da percorrere. Poi ho saputo che Brooklyn non è più italiana, i nostri connazionali si sono trasferiti nel New Jersey.

La strada è sempre larghissima e dritta, si arriva nel Queens, aumenta la popolazione nera ai bordi della strada, i cartelloni di incitamento sono tantissimi, variopinti, di forme diverse ma con una sola scritta: "Go Arthur go!", "Go Sarah go!", "Go Johnny go!", "Micky n° 1 for me!". Solo tre fra i maratoneti che mi sorpassano mi dicono: "Go Nino go!", leggendo la scritta sulla mia schiena; poi mi accorgo che anche loro c'è l'hanno e faccio altrettanto. Finalmente una bandiera italiana, riecco l'emozione, mi fermo, sono tanti e parlano la mia lingua, accetto l'incitamento, bacio la bandiera e riparto, mi sento meglio.

Inaspettatamente arriva una salita, è quella del Queensboro Bridge, non finisce mai, molti si fermano per fare stretching, altri camminano, ne supero tantissimi; ma allora sono partito proprio ultimo! Il pettorale è 20563 red (rosso). Siamo in discesa, finalmente posso allungare la falcata e scaricare un poco di tensione. Attraversiamo l'East River mentre scendiamo verso Manhattan. Mi sposto tutto sulla sinistra per incontrarmi con i miei familiari; mi sento chiamare: è mia moglie con gli amici, un saluto, qualche foto, ancora incitamenti e via sulla First Avenue che dritta dritta ma ondulata ci porta fino al Bronx e poi ad Harlem. Qui la popolazione è tutta nera, ma più calorosa, ogni tre/quattrocento metri una orchestrina suona ed altri ballano e a ritmo di musica ci incitano (questa gente la musica c'è l'ha nel Dna).

Siamo al trentesimo chilometro, la fatica è tanta, molti camminano. Il "Give me five!" non termina mai, tutti quei bambini che tendono la mano, come sono contenti quando batti cinque, si rivolgono agli altri come per dire "Duecentottanta, ne ho toccate duecentottanta" e via. Poi c'è chi ti offre caramelle, chi carta per asciugarti, chi vaselina e poi banane e spicchi di limone e arance.

Mi sono fermato a tutti i rifornimenti, ho sempre bevuto, e quando è stato possibile ho anche mangiucchiato due barrette che mi hanno offerto per strada, proprio come mi avevano detto i miei amici che c'erano già stati; mi sono trovato proprio bene e ora in Central Park mi sento che le gambe vanno, sono belle sciolte, aumento un poco l'andatura, supero tanta gente. Ecco l'arrivo, sono contentissimo e meno stanco di altre volte, vorrei abbracciare tutti, ma non si può, ci incanalano per staccarci il chip, ci coprono col nylon, ecco i furgoni con le nostre borse, l'avventura è finita.

Arrivederci New York, non so se potrò tornare, ci spero però! E soprattutto: "Go Nino go!"


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