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La Divina Corrida

La comunità podistica internazionale della Dead Runners Society ha lanciato una sfida podistica che consisteva nel correre consecutivamente per cento giorni, dal 1 gennaio al 10 aprile, sfida che ho raccolto con entusiasmo. La mia passione per la "Divina Commedia" mi ha portato a fare subito il paragone ed i cento giorni di corsa sono diventati cento canti podistici che narrano di un viaggio anche interiore alla riscoperta del piacere della corsa ad oltranza.

Inferno

La disfida podistica dei cento giorni procede. Sono al ventunesimo giorno di corsa e sono ventuno giorni che ho le gambe imballate e faccio fatica a salire le scale di casa. Si, è solo mezz'ora (al massimo ho corso per trentaquattro minuti) e quasi sempre sullo stesso percorso, ma ogni volta è un'avventura: non si sa mai cosa aspettarsi. Un giorno fa male il piede, un altro il tendine, un altro la coscia. Ieri a lanciare fitte di dolore era la fascia di muscoli (!) che fa sì che la pancia strabordi in maniera ordinata e simmetrica tutto intorno alla vita, come una ciambella. Magari oggi pomeriggio mi farà male il ginocchio sinistro, che so? Un giorno corro veloce come il vento, il giorno successivo non vado neanche a spingere. Un giorno potrei correre per ore, un giorno vado a singhiozzi.

Ma non sono questi gli ostacoli. Sono giunto alla conclusione che più che una questione di allenamento ("Ce la farò a correre almeno mezz'ora ogni giorno per cento giorni consecutivi?") l'incognita è la vita. Sembrano parole profonde queste, ma in realtà la domanda cambia in "Ce la farò a trovare il tempo per correre almeno mezz'ora oggi?" fra moglie, bambine, scuola, lavoro, spesa, pranzo, cena ed altri imprevisti familiari.

Per ora ce l'ho fatta. L'altro giorno sono dovuto andare a correre a buio, ma solitamente durante la settimana vado fuori alle quattro del pomeriggio, quando torno dall'ufficio, mentre il sabato e la domenica verso le undici di mattina, portandomi dietro le frittelle di Nonna Papera con lo sciroppo della colazione (e non è un bel correre, vi assicuro).

A dispetto della fama di Seattle, ho corso sotto la pioggia solo tre volte. I primi giorni di gennaio era freddo, ma sopportabile. Poi è venuta la nebbia, poi la pioggia appunto, e ora siamo in una fase di bonaccia che fa quasi primavera. Si corre bene.

Il tracciato "solito" parte da casa mia, passa accanto al cimitero e prosegue in leggera salita fino a metà percorso, quindi spiana ed arriva al negozio di bomboloni sulla Settantesima. Qui ho l'opzione eroica: proseguire o meno altre cinquanta falcate fino allla chiesa o addirittura il doppio, fino allo Starbucks (negozio di caffè) in prossimità della Settantacinquesima prima di tornare sui miei passi. Dipende da come mi sento e da come sono andato veloce, e anche se a sedere al bancone del negozio dei bomboloni c'è pubblico o no che mi guarda passare.

Podisti se ne incontrano due o tre, e c'è sempre qualcuno che porta fuori il cane. In particolare ogni pomeriggio mi incrocio con una ragazza snella e leggera che corre quasi sulle punte al doppio della mia velocità. Assomiglia vagamente a Sarah Jessica Parker, quella della serie televisiva "Sex and the City". Non so da dove parta, dove arrivi, e neanche se per caso stia affrontando la stessa disfida podistica dei cento giorni, ma corre tutti i giorni. Il fine settimana non la vedo perché cambio orario, ma sono certo che alle quattro è lì che macina chilometri anche il sabato e la domenica. Ha le cuffiette nelle orecchie e ci scambiamo solo un cenno di saluto silenzioso. La prima volta che mi è arrivata da dietro non l'ho neanche sentita e mi ha fatto letteralmente saltare per l'aria dallo spavento: è passata in silenzio, come un treno, con un piccolo spostamento d'aria improvviso. Anch'io nel mio piccolo ho fatto lo stesso qualche giorno dopo: c'era un vecchino con l'appoggino a rotelle che si muoveva a passi impercettibili sul marciapiede. Gli sono arrivato da dietro, ho fatto finta di tossire per farmi sentire ma era pure sordo, così quando l'ho salutato passandolo gli è quasi preso un coccolone e si è lasciato andare ad una serie di improperi che neanche un baleniere. Ho imparato un sacco di parole inglesi nuove. Mica colpa mia se vado veloce.

Una cosa di cui sono particolarmente fiero (no, non l'andare più veloce del vecchino) è che ogni giorno mi sono ripromesso di raccattare lo sporco che trovo per strada e buttarlo via al primo cestino. Il chinarsi correndo spiegherebbe il mal di schiena che mi affligge da ventuno giorni, ma è per una giusta causa e poi raccolgo una sola cosa a uscita. Una bottiglia oggi, una lattina vuota domani, una cartaccia giovedì. Non è che la zona sia sudicissima, intendiamoci, anzi direi il contrario: qui sembra quasi di stare in un parco, è magari che nelle vicinanze delle fermate degli autobus il vento fa volare fuori dal cestino i rifiuti più leggeri, oppure alla casa all'angolo hanno chiaramente festeggiato ieri sera e ci sono lattine di birra vuote ai bordi del marciapiede. Poi c'è quell'asciugamano rosa, lì, accanto al palo della luce che ogni giorno ignoro volutamente, che vattelapesca magari è un podista come me che lo ha messo in posizione strategica per asciugarsi il sudore a metà strada. Lo so, è abbastanza improbabile, ma ormai è quasi diventato un punto di riferimento (è lì che finisce la salita) e mi fa quasi comodo perché si nota anche al buio. Parte di questa mia iniziativa "Strade pulite" è stata lo scrivere all'azienda trasporti di Seattle per fare installare un cestino della nettezza alla fermata del cimitero, la parte di tutto il percorso che più soffriva di sporco in terra. Beh, non ci crederete (non ci credevo neanche io) due giorni dopo la mia richiesta, c'era un bel cestino di metallo nuovo luccicante che mi ha riempito di orgoglio, quasi fosse un bel trofeino vinto in gara.

E sono dunque arrivato ad un quinto della prova, cominciata il 1 gennaio e che finirà il 10 aprile. Magari vi tengo aggiornati se succede qualcosa di nuovo, tipo se magari uno di questi giorni mando tutto a monte e mi fermo anche io a guardare passare chi corre sgrifando bomboloni ripieni.

Purgatorio

Se i giorni fossero chilometri, a quest'ora mi troverei tra Crespino sul Lamone e Valbura, e sono sicuro che nel buio della notte riuscirei già a sentire lo scroscio della cascata che preannuncia quel ponte a due arcate dove la Faentina fa una specie di insenatura. Un punto del percorso che mi ha sempre affascinato per la sua solitudine, per quella curva inattesa, per il silenzio rotto solo dal costante e tranquillo brusio delle acque, per la consapevolezza di essere già oltre la metà della gara e comunque ancora immerso nell'abbraccio notturno della montagna.

Ma la sfida di correre consecutivamente per cento giorni devo ammettere non ha lo stesso fascino della "100km del Passatore", anche se a volte mi è sembrato di essere sulla dirittura finale di Errano, le gambe vuote, la mente andata, i muscoli che reagiscono per sola inerzia meccanica. Ed erano solo tre chilometri. Ci penso spesso al Passatore mentre corro, come termine di paragone, per riportare la sfida dei cento giorni di corsa ad un livello "digeribile": in fondo sono corsettine brevi, anche se costanti, con ore ed ore di recupero fra l'una e l'altra. Un po' come portare fuori il cane tutti i pomeriggi. Niente a che vedere con il correre senza sosta da Firenze a Faenza, attraversando le campagne del Mugello sotto il sole del pomeriggio che brucia solo per essere accolti dal freddo notturno della Colla e dall'umido della nebbia mattutina che attende scollinando in Romagna. Il sapore eroico della sfida però resta, tanto che adesso mi ritrovo a pensare che forse non mi fermo neanche, e continuo a correre fino alla fine dell'anno. "Verso l'infinito... e oltre!" come dice Buzz Lightyear.

Poco è cambiato dal primo resoconto. Le gambe non sono più costantemente imballate ma in compenso ho la parte bassa della schiena incriccata che mi costringe a non forzare più di tanto in salita e che mi offre una scusa plausibile quando mi viene chiesto di portare su in casa le borse del supermercato. I dolori continuano a cambiare di posto continuamente (l'altro giorno mi facevano male gli stinchi, mai successo prima) ma grazie al parallelo mentale con il Passatore ho cominciato a considerarli alla stregua di compagni di gara. L'asciugamano rosa in terra non c'è più (la ragazza misteriosa invece continua ad incrociarmi sulle punte dei piedi) e finalmente, dico finalmente, il proprietario della casa al numero civico 5537 ha deciso di potare la siepe che ostacolava il passaggio sul marciapiede costringendomi tutte le volte che transitavo a spostarmi verso la carreggiata ed a chinare il capo per non urtare contro le fronde basse, quasi dovessi quotidianamente umiliarmi passando sotto una forca caudina. La differenza sostanziale è però nell'accettazione completa del correre come atto quotidiano subentrata con il passare dei giorni. Non controllo più neanche le previsioni del tempo: torno a casa dall'ufficio, mi cambio scarpe e vestiti e sono sul percorso. Fa parte della routine, come svegliarsi e fare colazione ogni giorno.

A quaranta giorni dalla fine, la lista dei sopravvissuti si è decimata ulteriormente, ma io (e a gennaio non ci avrei scommesso due lire) sono ancora in gara. Lasciatemelo dire: è una bella sensazione di onnipotenza.

Paradiso

La disfida dei cento corse in cento giorni l'ho portata a termine con successo ed ora mi trovo in uno stato di beatitudine podistica alla stregua di quel ristretto gruppo di monaci giapponesi che sulle montagne di Kyoto si cimentano nello Hieizan Sennichi Kaihogyo, ovvero una disfida di cento giorni affrontata per otto anni consecutivi ma su distanze ben maggiori.

Beh, anche se non come chilometraggio, mi sento di aver affrontato il primo anno da bonzo, e l'esperienza è stata davvero mistica: ripensando a questi cento giorni di corse, è stato come vivere in un documentario sulla natura, di quelli che in pochi fotogrammi, catturano stagioni. Ho visto nubi accompagnarmi nella corsa, ho visto fiori sbocciare, crescere ed avvizzirsi lungo la mia strada. Ho visto le stesse gambe correre con facce diverse, ho visto palloncini impigliati nei rami sgonfiarsi ed ho calciato lo stesso sasso per chilometri. Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare.

L'ultima corsa, quella del 10 aprile, il giro di pista, me la sono gustata a Firenze, in una fresca sera primaverile, lungo le strette strade intorno al piazzale Michelangiolo. Ma forse, come nel finale del film "Brazil", era solo il sogno ad occhi aperti di un podista provato dalla monotonia del percorso che ha trovato una via di fuga nell'immaginazione.


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