Pubblicità



 

 

 

 

La mia maratona di New York

"Amo l'atletica perché è poesia
Se la notte sogno,
sogno di essere un maratoneta"
Eugenio Montale, premio Nobel per la poesia

New York è "the Big Apple", come amano chiamarla i newyorkesi.

New York è Wall Street, i grattacieli che si innalzano verso il cielo, la fretta, i barboni che dormono nella metropolitana sporca e piena di scritte, l'individualismo sfrenato, i teatri, le insegne gigantesche al neon, la violenza dietro l'angolo.

New York è la metropoli dove succede di tutto, dove tutto cambia e tutto è come prima.

New York è la vita che pulsa ventiquattro ore su ventiquattro ore.

New York è lo spettacolo.

Nella Grande Mela, il jogging è un'abitudine quotidiana, uno stile di vita, quasi una religione. Migliaia di persone corrono, in qualsiasi ora del giorno a Central Park, l'unico spazio verde di Manhattan.

Partecipare alla maratona di New York è il sogno di ogni podista, di ogni maratoneta. Vincerla è la consacrazione di una carriera, è il successo!

New York è la maratona dei record: dal numero dei partecipanti alle nazioni rappresentate, dagli spettatori che assistono alla manifestazione alle reti televisive che la trasmettono in diretta.

La vigilia della gara, alla presenza delle autorità e dei vincitori delle edizioni precedenti, ci si ritrova tutti assieme al Palazzo dell'Onu, dietro la bandiera della propria nazione, in tal modo ci si sente coinvolti in un grande avvenimento e poi, al seguito di un camion stracolmo di fotografi e di cineoperatori, tutti di corsa, fino alla Tavern on the Green a Central Park, dove uno sponsor offre a tutti una ricca colazione e la maglietta pubblicitaria.

Il sabato sera, altro ritrovo comune, questa volta al Convention Center per una maxi-spaghettata generale e birra a volontà. In tale occasione avvengono anche scambi di magliette e di ricordi tra tutti i partecipanti, ed è questo il momento migliore per socializzare e per conoscersi. Insomma un pieno di carboidrati e di entusiasmo prima del grande giorno.

E finalmente, dopo giorni e giorni di allenamenti e un'attesa trepidante arriva il Marathon Day.

Dall'hotel del Y.M.C.A. mi affaccio sulla strada, ci sono pozzanghere sull'asfalto, la giornata è molto nuvolosa, la temperatura è tiepida, il tasso di umidità sembra piuttosto elevato. Qualche auto rompe il silenzio di una città ancora avvolta nel sonno.

Scendo in strada e prendo un taxi, che mi porta al Mayflower Hotel, situato in zona arrivo. Qui i maratoneti arrivano a centinaia, a migliaia per prendere gli autobus che ci porteranno a Fort Wadsworth nel quartiere di Staten Island, luogo di partenza della maratona. Purtroppo l'autista dell'autobus non si ferma alla fermata giusta, per cui dobbiamo percorrere la stessa strada per due volte, e questo metto a rischio la nostra partecipazione alla maratona. Ma proprio a noi doveva capitare? Qualcuno in autobus dà segni di nervosismo, ma poi come nel più classico dei film hollywoodiani, il finale è a lieto fine e così dopo qualche peripezia riusciamo ad arrivare in tempo per la partenza.

Faccio il check in, bevo un caffè, molto lungo all'americana e dopo un breve riscaldamento mi presento alla partenza. Qui c'è un'atmosfera silenziosa, ognuno si sta concentrando a modo suo, raggiungo le prime file e, come ogni partecipante alla maratona, qualche minuto prima della partenza, mi libero di una vecchia tuta facendola volare sopra la testa degli altri concorrenti.

Nel frattempo lo speaker continua il conto alla rovescia: "One minute to go away..", gli elicotteri della Abc volano sul ponte di Verrazano alla ricerca della migliore inquadratura, intravedo Pizzolato, Bob De Castella, Poli, qualche atleta di colore dal passo felpato, ormai mancano pochi secondi al via, qualcuno grida, fischia e, finalmente un cannone della prima guerra mondiale, avvolto nella bandiera americana, spara il colpo che dà il via alla maratona.

È una liberazione! Comincio subito a correre, gli elicotteri si abbassano per le riprese televisive, sento il rumore sopra la testa. Dagli altoparlanti situati sul ponte di Verrazano, esce la musica tratta dal film "Rocky", che ci accompagna lungo i primi chilometri. Mi sento bene ma cerco di non eccedere, la maratona è lunga e non vorrei rimanere a secco nei momenti cruciali.

Finito il ponte di Verrazano, entro a Brooklyn, un quartiere popolato da italiani, spagnoli, ebrei, tedeschi e da tante altre minoranze, c'è molto entusiasmo, ci sono delle bandiere italiane, intravedo qualche cartello di incitamento: "Go Orlando go, go Laura go". Qui c'è un pezzetto d'Italia e questo mi fa spingere con maggior determinazione.

Ad ogni miglio c'è un ristoro, prendo sempre il cartoncino d'acqua, l'umidità nella seconda parte della gara, potrebbe crearmi qualche problema ed è meglio prevenire un'eventuale disidratazione bevendo spesso.

Al decimo chilometro il cronometro digitale gigante segna 36.40, sono in media con la mia tabella, cerco di correre ad un ritmo regolare ma è difficile, ci sono molti saliscendi e nel mio gruppo c'è molta combattività, ognuno cerca di schizzare via, di allungare.

Sotto la spinta dell'entusiasmo degli spettatori, i chilometri passano velocemente, sono già sul Pulasky Bridge, è il passaggio della mezzamaratona, il cronometro segna 1:17.25, mi sento bene, non avverto sintomi di fatica, penso che con un tifo forte non avrò crisi, mi sto esaltando!

Raggiungo Paola Moro, campionessa italiana di maratona, scambio qualche parola, mi dice che è partita molto veloce, forse sta pagando lo sforzo iniziale. È la prima italiana che incontro, avrei voglia di parlare, di rilassarmi, di sciogliere un po' di tensione ma sto bene e decido di mantenere il mio ritmo.

Lascio il quartiere di Brooklyn ed entro nel Queens, un quartiere residenziale abitato dalla classe medio-alta della borghesia newyorkese, percorro alcuni chilometri ed eccomi sul famigerato Queensbourgh Bridge. Sul ponte si corre su un sottile tappeto rosso che ricopre delle grate di ferro, ci sono folate di vento, cerco un assetto di corsa che mi consenta di non appesantirmi troppo ma è difficile, non ci sono spettatori che ci sostengano ed avverto i primi segni di fatica.

Finalmente arriva la discesa, sento che mi ritornano nuove energie, una curva a gomito ci immette sulla First Avenue, sono a Manhattan, nel cuore pulsante di New York, si corre in mezzo ai grattacieli, ai lati della strada c'è moltissima gente, c'è aria di festa che si mescola al tifo e all'entusiasmo degli spettatori, qualcuno urla "You are looking good", altri, con un ritmo incalzante gridano "Go, go". Nel frattempo, una donna americana mi raggiunge, sta spingendo molto forte, le donne fanno un tifo indescrivibile, urlano "Go, go, F45" (è il suo numero di gara). Le chiedo come si chiama, con un filo di voce mi risponde "Gilbert Sharlet, I come from California", ha una corsa molta dispendiosa ma è concentratissima, ha lo sguardo fisso, sembra stia vivendo un rapporto ancestrale, spirituale con la corsa e chissà verso quali orizzonti è proiettata!

Mi sto avvicinando al trentesimo chilometro, il vento è fastidioso, a volte trasversale, a volte contrario, cerco di non rallentare troppo, vedo che altri cedono più di me, sono nel punto critico della maratona ed ecco un altro ponte che ci porta nel Bronx, il quartiere dei portoricani, della povera gente, dove la violenza è un fatto quotidiano. In questa parte del percorso ci sono pochi spettatori, accuso un po' di stanchezza e un calo di concentrazione, sono a New York da cinque giorni e con il cambiamento di fuso orario ho sempre dormito poco, sono in difficoltà.

Per ricaricarmi cerco un contatto più stretto con il pubblico, urlo, tocco le mani protese degli spettatori come fanno i giocatori di pallavolo per rafforzare lo spirito di gruppo, la gente mi capisce e urla più forte il proprio incitamento, questo mi distoglie dalla fatica ed io mi sento più leggero.

Ricomincio a bere molto, il vento mi ha asciugato il sudore e, non vorrei andare incontro ad una brutta crisi. Nel frattempo mi raggiungono due azzurre di maratona: Rita Marchisio e Emma Scaunich. Reagisco e sento un po' inaspettatamente che sto ritrovando nuove energie. Davanti a noi si intravede Madison Bridge, il ponte che ci porta ad Harlem, il ghetto negro pieno di case bruciate. Ai lati della strada si sente suonare della musica jazz, le due italiane spingono con molta determinazione, poco davanti a noi ci sono altre due donne, raggiungerle e superarle significa intascare mille o duemila dollari in più, una ragione in più per soffrire. Il popolo nero di Harlem incita con molto entusiasmo, il tifo è incredibile.

Da Harlem continuiamo a scendere lungo la Fifth Avenue, una delle strade più famose del mondo, un altro simbolo di questa metropoli. Siamo a circa tre miglia dall'arrivo, entriamo a Central Park, la strada si restringe, il pubblico è più vicino ai maratoneti, l'incitamento è sempre più assordante, questo mi aiuta a tollerare meglio la fatica degli ultimi chilometri. Nel mio gruppo siamo tutti protesi verso il massimo dello sforzo, c'è qualche salita che rende più duro il finale della gara e su una di queste le due azzurre allungano il passo, io mi sento già al massimo e anche sotto la spinta dell'incitamento degli spettatori, non riesco a mantenere il loro ritmo e poi... per me all'arrivo non ci sono i dollari!

Nell'ultimo miglio ci sono le gradinate ai lati della strada, il pubblico è tutto in piedi, urla, si sbraccia, spinge a non cedere, mi sembra di aumentare il ritmo, ma forse sono solo sensazioni, sono ormai al traguardo, sento un boato continuo ed ininterrotto, sono contento, felice, sorrido, la stanchezza è svanita.

Le ragazze dell'organizzazione mi avvolgono in un lenzuolo di carta stagnola che mi aiuta a trattenere il calore e mi fanno le congratulazioni di rito. Il mio primo pensiero? Ritornare a New York, alla prossima maratona di New York!

La sera mi reco alla festa offerta dalla Champion Usa, dove un ricco buffet insieme alla proiezione del filmato della maratona ci allieta una serata, densamente impregnata delle emozioni vissute sulle strade della Grande Mela. Al centro della sala è appeso l'ordine di arrivo, con il relativo tempo: mi sono classificato 176° in 2:38.19 e questo, chi se lo scorda più?".

P.S. - Dopo quattro giorni un uomo handicappato, reduce dal Vietnam, senza gambe e senza sedia a rotelle è arrivato al traguardo aiutandosi solo con le braccia e con le mani. Il suo arrivo è stato accolto e festeggiato dall'organizzazione, da una banda musicale e da molti spettatori. Anche questa è la maratona di New York!


Since 1984 - © Aerostato, Seattle - All Rights Reserved.